CORSO FGLAW
ESAME AVVOCATO 2015
PARERE PENALE n. 2
16 dicembre 2015
Traccia caso penale n. 2 – Esame Avvocato 2015
Tizio, approfittando delle difficoltà economiche in cui versa Caio, presta a questi una somma di danaro pari ad euro 20.000 facendosi promettere in corrispettivo interessi usurari. Successivamente, a seguito della mancata restituzione integrale da parte di Caio della somma prestata e degli interessi pattuiti, Tizio incarica della riscossione del credito i suoi amici Mevio e Sempronio. Questi ultimi, ben consapevoli della natura usuraria del credito, contattano ripetutamente al telefono Caio e gli chiedono il pagamento del credito, minacciandolo di ucciderlo. Poiché Caio risponde di non poter pagare per mancanza di danaro, Mevio e Sempronio di portano presso l’abitazione di questi e dopo aver nuovamente richiesto il pagamento senza però ottenerlo, lo costringono a salire su di un’autovettura a bordo della quale lo conducono in aperta campagna. Dopo averlo fatto scendere dall’auto lo colpiscono entrambi ripetutamente con calci e pugni. I due, quindi si allontanano minacciando Caio che se non pagherà entro una settimana torneranno da lui. Caio viene trasportato da un automobilista di passaggio in ospedale ove gli vengono diagnosticate lesioni consistite nella frattura di un braccio e del setto nasale con prognosi di guarigione di giorni 40. Caio decide di rivolgersi alla Polizia a cui riferisce nel dettaglio sia la condotta posta in essere da Mevio e Sempronio in suo danno, sia il prestito usurario effettuato da Caio. Attraverso l’individuazione fotografica operata da Caio, la polizia identifica Mevio e Sempronio. Il candidato, assunte le vesti dell’avvocato di Mevio e Sempronio, individui le fattispecie di reato che si configurano a carico dei suoi assistiti e gli istituti giuridici che trovano applicazione nel caso in esame.
SVOLGIMENTO SCHEMATICO DEL PARERE
Avv. Valeria Lazzarini
(ex corsista FGLAW)
Il caso è stato sviluppato senza l’utilizzo delle tecniche formali, redazionali e di citazione della Scuola FGLAW che sono riservate e trasmesse solo ai nostri corsisti.
Al fine di redigere il parere de quo si rende necessario un preliminare inquadramento delle fattispecie penali ascrivibili a Mevio e Sempronio.
Dalla descrizione dei fatti emerge che Mevio e Sempronio assumevano l’incarico di riscuotere consapevolmente un credito di natura usuraria, ragion per cui, almeno prima facie, potrebbe ipotizzarsi un concorso con il sig. Tizio nel reato di usura (artt. 110 e 644 c.p.).
Come si evince dalla formulazione dell’art.644, comma 1, c.p. trattasi di un reato comune, atteso che il soggetto attivo può essere “chiunque”, il quale, nonostante l’inquadramento sistematico tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, è considerato delitto plurioffensivo, volto a proteggere non soltanto l’interesse patrimoniale ma anche la libertà di autodeterminazione negoziale della vittima, ovvero secondo alcuni autori l’interesse pubblico alla salvaguardia del mercato finanziario e creditizio.
Il fatto di reato si sostanzia nella stipulazione di un qualsiasi contratto a prestazioni corrispettive, in cui il soggetto attivo presti denaro o altra utilità quale corrispettivo della dazione o della promessa di interessi o altri vantaggi usurari da parte della vittima.
Non è peraltro necessario che a tal fine l’agente assuma atteggiamenti intimidatori o minacciosi nei confronti del soggetto passivo, che caratterizzano, invece, la diversa fattispecie di estorsione (Cass. pen. n. 2988/2008).
Dunque, già questo primo elemento dovrebbe escludere la configurabilità del concorso in usura.
Tuttavia, va ulteriormente sottolineato che a seguito della riforma avutasi con legge n. 108/1996 la giurisprudenza non considera più il delitto in esame come reato istantaneo seppur ad effetti permanenti, nel quale cioè l’offesa si perfeziona con la pattuizione, essendo le dazioni successive post factum non punibile, ma reato “a consumazione prolungata” nel quale la dazione effettiva degli interessi convenuti fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna il momento consumativo del reato.
Infatti, concorre nel reato di usura soltanto colui il quale, ricevuto l’incarico di recuperare il credito usurario, sia riuscito ad ottenerne l’effettivo pagamento. In tutti gli altri casi, invece, l’incaricato risponde del reato di favoreggiamento personale o, nell’ipotesi di violenza o minaccia verso il debitore, di estorsione, posto che il momento consumativo del reato di usura rimane quello originario della pattuizione (Cass. pen. n. 17157/2011; n. 3776/2009; n. 41045/2005).
Nè tantomeno pare che possa configurarsi il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone (art. 393 c.p.), quale reato contro l’amministrazione della giustizia, che trova la sua ratio legis nell’impossibilità per il cittadino di farsi giustizia da solo e con l’uso della forza, dovendo necessariamente rivolgersi all’autorità giudiziaria per tutelare i propri diritti.
La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato gli elementi essenziali di tale figura delittuosa nella pretesa giuridica di far valere un diritto soggettivo e nella corrispondente opposizione del terzo che contesti la suddetta pretesa; la possibilità di ricorrere al giudice e il ricorso arbitrario all’uso della forza , nella forma della violenza o della minaccia, diretta ad ottenere dal terzo quanto da questi pretesamente dovuto e il dolo, consistente nella volontà diretta ad esercitare quella pretesa (Cass. pen n. 51433/2013).
Nel caso di specie, sebbene Mevio e Sempronio siano stati incaricati della riscossione di un credito, non si può certamente affermare che il credito usurario possa essere meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.
Dunque, viene a mancare un requisito fondamentale della fattispecie di cui all’art. 393 c.p.
In ragione di ciò, la giurisprudenza, peraltro, ha precisato che ove la violenza e/o la minaccia, indipendentemente dalla intensità con la quale siano adoperate dall’agente, siano esercitate al fine di far valere un preteso diritto per il quale non può invocarsi la tutela dinanzi all’autorità giudiziaria, il suddetto comportamento va qualificato come estorsione e non quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Cass. pen. n. 51433/2013)
Ciò premesso, può agevolmente escludersi l’imputazione ex artt. 110 e 644, comma 1, c.p., da un lato e per esercizio arbitrario delle ragioni ex art. 393 c.p. dall’altro lato, venendo in considerazione un concorso in tentata estorsione aggravata (artt. 110, 56, 629 e 628 co3 n. 1).
Delitto comune, il cui soggetto attivo può essere chiunque, l’estorsione consiste nel fatto di chi procura a sé o ad altri un ingiusto profitto, con altrui danno, costringendo una persona, mediante violenza o minaccia, a fare, o ad omettere qualcosa.
Esso viene tradizionalmente ascritto ai delitti a “cooperazione artificiosa della vittima”, dal momento che l’evento non può prescindere dal compimento di un atto di disposizione della vittima, cioè un comportamento volontario, seppure carpito con la condotta costrittiva.
L’estorsione è un reato a forma vincolata, la cui condotta tipica deve necessariamente integrarsi nella violenza o nella minaccia, attraverso cui l’agente realizza una coartazione della libertà di autodeterminazione della vittima che in entrambi i casi, a differenza della rapina, non viene completamente obliterata.
In particolare, la violenza consiste in una coazione fisica che può incidere tanto sulla persona (sia il soggetto passivo sia un terzo) tanto sulle cose, mentre la minaccia – che secondo la giurisprudenza può manifestarsi anche in maniera implicita o larvata – deve ingenerare in chi la subisce la convinzione di essere sottoposti ad un più grave pregiudizio dipendente dalla volontà dell’agente.
È chiaro che l’effetto psicologico sulla vittima deve essere apprezzato tenendo conto delle circostanze concrete, della personalità dell’agente, delle condizioni della vittima.
In ogni caso, la condotta di costrizione deve essere tale da determinare la vittima a compiere un atto dispositivo, il quale deve a sua volta produrre in capo al soggetto attivo un ingiusto profitto e nei confronti del soggetto passivo o di terzi un danno patrimoniale.
A tal proposito la dottrina sottolinea come anche l’estorsione sia un delitto plurioffensivo, protettivo non solo dell’inviolabilità del patrimonio ma anche della libertà di autodeterminazione individuale.
Quanto all’elemento soggettivo, esso è rappresentato dal dolo generico, ragion per cui l’agente deve avere la consapevolezza di esercitare violenza fisica o morale ai danni di un terzo per costringerlo ad una determinata condotta in vista del conseguimento di un profitto ingiusto e di un corrispondente danno patrimoniale.
Peraltro, nel caso in esame verrebbe in considerazione un’ipotesi di estorsione aggravata dalla “presenza di più persone riunite”, secondo il disposto dell’art. 628, comma 3, n.1 c.p., atteso che Mevio e Sempronio hanno contemporaneamente, nello stesso luogo, esercitato violenza e minaccia nei confronti della vittima al fine di ottenere il pagamento non avvenuto del compenso usurario.
Facendo leva su un’interpretazione non solo letterale ma anche storico sistematica della circostanza aggravante in questione, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha tracciato la fondamentale differenza tra la semplice ipotesi di concorso di persone nel reato e la presenza delle più persone riunite, puntualizzando che con il termine “riunione” il legislatore ha conferito alla compresenza dei concorrenti nel locus commissi delicti un maggior disvalore penale in virtù dell’apporto causale fornito nell’esecuzione del reato e della rafforzata vis compulsiva esercitata sulla vittima.
In tal modo il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue da quella c.d. eventuale di cui all’art. 110 c.p., perché la fattispecie circostanziale contiene l’elemento specializzante della “riunione” riferito alla sola fase dell’esecuzione del reato, invece, il concorso di persone nel reato può manifestarsi in tutte le fasi del reato, da quella ideativa a quella esecutiva.
Dunque, ai fini della realizzazione della circostanza in esame non è sufficiente che la vittima percepisca la presenza di una pluralità di aggressori ma è necessario che almeno due persone siano compresenti nel luogo e nel momento in cui si realizzi la condotta estorsiva (Cass. pen. S.U. n. 21837/2012).
L’orientamento prevalente afferma che il delitto di estorsione si consuma nel momento e nel luogo in cui viene conseguito l’ingiusto profitto e si produce l’altrui danno patrimoniale, il che non è avvenuto nel caso di specie, non avendo la vittima eseguito il pagamento.
Pertanto, potrà configurarsi un concorso nel tentativo di estorsione aggravata, atteso che pur essendo la condotta di Mevio e Sempronio idonea e diretta in modo univoco alla commissione di un reato di estorsione, tuttavia questo non si è consumato per la mancanza dell’elemento oggettivo dell’ottenimento dell’ingiusto profitto con l’altrui danno.
Non pare però che i profili penalistici delle condotte ascritte a Mevio e Sempronio possano dirsi esauriti.
Infatti, è necessario considerare che costoro costringevano la vittima a salire su di un’autovettura a bordo della quale lo conducevano in aperta campagna e che a seguito dei colpi che gli infliggevano essa riportava delle lesioni con prognosi di guarigione in giorni 40.
Sotto il primo aspetto può configurarsi il reato di sequestro di persona (art. 605 c.p.) il quale punisce chiunque privi taluno della libertà personale, attualmente intesa in una logica costituzionalmente orientata, quale assenza non solo di coercizione fisica ma anche di coercizione psichica e morale, che possano pregiudicare la libertà di autodeterminazione del singolo ampiamente intesa.
È un reato a forma libera, infatti la privazione della libertà personale può avvenire in qualunque modo e con qualunque mezzo. D’altronde, ciò si giustifica alla luce della particolare pregnanza del bene giuridico protetto, che porta il legislatore a concentrare l’attenzione sull’evento rappresentato, appunto, dalla privazione della libertà personale.
Requisito non esplicitato dalla norma, ma ricavabile dal bene protetto, è che la compressione della libertà deve protrarsi per un periodo di tempo apprezzabile.
La giurisprudenza precisa, infatti, che il sequestro di persona è un reato di durata, per il quale si prescinde dalla durata dello stato di privazione della libertà, che può anche essere limitato ad un tempo breve (Cass. pen. n. 21314/2014; n. 28509/2010).
Non è necessario che la perdita della libertà sia assoluta, tale cioè da impedire qualsiasi movimento al sequestrato, è sufficiente ad integrare l’evento anche una privazione relativa o parziale della libertà personale.
Ad esempio, la giurisprudenza ha considerato sequestro di persona anche il trattenere a bordo di un veicolo una persona che voglia scendere, proseguendo la marcia in modo che essa non possa abbandonare il veicolo senza rischiare una lesione alla propria integrità fisica (Cass. pen. n. 1479/1992).
La realizzazione dell’evento segna il momento perfezionativo del reato, mentre la consumazione coincide con il momento di liberazione della vittima.
Il reato di sequestro di persona è l’archetipo dei reati permanenti perché la libertà personale è un bene suscettibile di lesione per tutta la durata della sua compressione. Non vi è dubbio circa la configurabilità del tentativo.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, quale coscienza e volontà di privare una persona della libertà personale.
Come già anticipato, le lesioni riportate dalla vittima a seguito dei colpi inferti da Mevio e Sempronio, integrano a carico di questi ultimi anche il delitto di cui all’art. 582 c.p., volto a proteggere l’incolumità individuale, da apprezzarsi con riferimento alla persona intesa nel suo significato globale, onnicomprensivo di integrità fisica, psichica, funzionale ed estetica.
Ciò che contraddistingue il delitto di lesioni, soprattutto dalla vicina fattispecie di percosse, è lesione diretta a cagionare una “malattia nel corpo o nella mente della vittima”.
La lesione penalmente rilevante non è soltanto quella consistente nel “picchiare”, “colpire” ma ogni violenta manomissione fisica della persona.
In relazione alla durata ed alla gravità della malattia, il legislatore, in omaggio al principio di tassatività e determinatezza, distingue diverse tipologie di lesioni dolose, attraverso le circostanze aggravanti di cui all’art. 583 c.p.
A tal proposito, va evidenziato che la vittima ha riportato una prognosi di giorni 40, pertanto non saranno applicabili a Mevio e Sempronio le aggravanti suddette.
L’elemento soggettivo, anche per questo delitto, è rappresentato dal dolo generico.
Le lesioni si consumano nel momento e nel luogo in cui viene cagionata la malattia, la quale per consolidata giurisprudenza non è più considerata in senso “anatomico” ma in senso funzionale, cioè quale alterazione del benessere psicofisico della vittima.
In conclusione, alla luce di quanto finora esposto, è possibile ricondurre la condotta posta in essere da Mevio e Sempronio alle fattispecie di reato di cui agli artt. 110-56 e 629 c.p. in concorso con le fattispecie di cui agli artt. 605 e 582 c.p.
Tuttavia, in considerazione delle modalità temporali ed organizzative dei fatti narrati è possibile ipotizzare che Mevio e Sempronio realizzato le condotte in attuazione di un unico disegno criminoso, a fronte del quale appare possibile invocare il beneficio della continuazione di cui all’art. 81, comma 2, c.p.