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TRACCE CONCORSO MAGISTRATURA 2019 - PROVE SCRITTE 4, 5 e 7 GIUGNO

  • SVOLGIMENTO SINTETICO TRACCE ESTRATTE - ATTIVITA' DEL CORSO - MATERIALI GIURISPRUDENZIALI SELEZIONATI

PROVA SCRITTA IN DIRITTO AMMINISTRATIVO DEL 7 GIUGNO 2019

Traccia di AMMINISTRATIVO: Delineati i tratti essenziali del giudizio di ottemperanza, si soffermi il candidato sulla penalità di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) del D.L.vo n. 104/2010 (c.d. "astreinte") e sulla ammissibilità di una sua revisione nel "giudizio per chiarimenti".

SVOLGIMENTO RAGIONATO SINTETICO A CURA DEL CONS. PASQUALE FAVA.

La traccia richiede la conoscenza approfondita dei principi di diritto e delle argomentazioni giuridiche prospettate dalla recentissima sentenza dell’Adunanza plenaria del 9 maggio 2019, n. 7 (), intervenuta sulla questione dei rimedi processuali per veicolare doglianze correlate alla sopravvenuta iniquità delle penalità di mora. La prima parte del tema richiede l’analisi dell’arcinota questione della natura giuridica del giudizio di ottemperanza. Trattasi di tematica classica affrontata in tutti i manuali (sulla quale sia consentito rinviare a P. Fava, Il giudizio di ottemperanza secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale, in Rass. Avv. Stato () – pag. 257-291) e relativamente alla quale è intervenuta la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 2/2013 (), parimenti affrontata nel corso del rush finale. La seconda parte implica la disamina della recentissima questione relativa alla identificazione dei rimedi giuridici finalizzati a contrastare la sopravvenuta iniquità delle penali di mora.

ATTIVITÀ DEL CORSO – MATERIALI GIURISPRUDENZIALI DISTRIBUITI (LEZIONI DEL CONS. PASQUALE FAVA)

Il giudizio di ottemperanza è stato affrontato quest’anno nel corso delle lezioni di dicembre e ripetuto durante il rush finale del 26 maggio 2019. La sentenza dell’Adunanza plenaria del 9 maggio 2019, n.7 () è stata trattata in modo approfondito per oltre un’ora, unitamente alle sentenze collegate AP n. 2/2013 () e AP 15/2014 (). La traccia “Penalità di mora tra cognizione e ottemperanza: regime giuridico, funzioni, applicabilità in relazione a statuizioni di condanna al pagamento di somme di danaro e rimedi contro l’iniquità originaria e sopravvenuta”, assegnata ai corsisti nel corso dell’esercitazione del 18 maggio 2019 e spiegata durante la lezione del rush finale del  successivo 26 maggio, oltre a presupporre lo studio della sentenza n. 7/2019, intendeva stimolare ulteriormente le capacità di ragionamento nel corso dell’esercitazione scritta, poiché completava la riflessione della Plenaria sollecitando un’analisi dei rimedi contro l’iniquità originaria. Nell’ambito della lezione del 26 maggio 2019 la menzionata traccia è stata spiegata descrivendo puntualmente i passaggi motivazionali della sentenza n. AP 7/2019, ma anche evidenziando le criticità derivanti dalla posizione espressa dal Supremo Consesso amministrativo che produrrebbe, tra l’altro, un contenimento degli effetti deterrenti dell’istituto, depotenziandone l’efficacia.
La sentenza della Plenaria n. 7/2019 è stata esaminata soffermandosi analiticamente in particolare sui seguenti punti:
1) la natura giuridica del giudizio di ottemperanza (tale giudizio è ampio e vario potendo spaziare dalla stretta esecuzione, all’attuazione, alla cognizione [in proposito l’AP 7/2019 ha richiamato l’AP 2/2013]: il processo amministrativo nella fase di ottemperanza è peculiare e specifico ben potendo presentare segmenti di cognizione, commisti a quelli di esecuzione/attuazione, con la conseguenza che il G.A., in tale sede, abbia in modo permanente un pieno controllo e governo della fase esecutiva che si consuma solo con la piena attuazione del giudicato; è proprio nell’esercizio di tale potere che compete al G.A. il compito di valutare la perdurante non manifesta iniquità delle penalità di mora);
2) la natura giuridica delle penalità di mora e delle relative funzioni (preventiva, deterrente e sanzionatoria) [in proposito l’AP 7/2019 ha confermato AP 15/2014]; tali funzioni non possono più essere raggiunte dalla data di insediamento del commissario ad acta (c.d. “esecuzione surrogatoria”), in quanto da tale momento, secondo la giurisprudenza amministrativa prevalente, la P.A. è privata del potere di provvedere in ottemperanza, determinando una ipotesi di “impossibilità soggettiva sopravvenuta che rende non più funzionale ed utile l’astreinte, sì da imporne la soppressione ex nunc”;
3) il cumulo tra la penalità di mora e il risarcimento (in ragione della eterogeneità funzionale), ivi compreso il danno da impossibilità di esecuzione del giudicato [l’AP 7/2019 ha richiamato AP 2/2017 ];
4) i criteri previsti dall’art. 614 bis c.p.c costituiscono regole generali (come tali applicabili anche nel processo amministrativo);
5) la lettura estensiva dell’art. 34 c.p.a, con possibilità di applicare le penalità di mora anche in sede di cognizione (ma entro certi limiti e in presenza di specifiche condizioni: solo se il vincolo conformativo derivante dalla sentenza sia così stringente da imporre un adempimento in termini certi e prefissati – carattere non discrezionale della residua attività amministrativa).
Trattandosi di una sanzione, secondo l’Adunanza plenaria, devono essere applicati i principi generali tra cui quello di proporzionalità. Anche se l’art. 114, quarto comma, lett. e, c.p.a. non prevede alcun criterio (a differenza dell’art. 614 bis c.p.c.), tuttavia esso richiama il presupposto della manifesta iniquità. Per tale ragione è necessario contenere la funzione sanzionatoria delle penalità di mora nei limiti di legge evitando che si raggiungano somme di danaro del tutto sproporzionate e irragionevoli. Si determinerebbe, a dire dell’Adunanza plenaria n. 7/2019, un trasferimento di ricchezza senza causa. Ciò premesso l’Adunanza plenaria ha identificato soprattutto nel RICORSO PER CHIARIMENTI il rimedio giuridico idoneo a veicolare doglianze relative alla sopravvenuta iniquità delle penalità di mora. Si è avvertito, dunque, che non si tratta di introdurre un reclamo, un appello, un mezzo di impugnazione generale contro le statuizioni della sentenza di ottemperanza che abbia irrogato penalità di mora, né di una revisione retroattiva dei criteri di determinazione dell’astreinte (incidendo sui crediti già maturati dalla parte beneficiata), ma solo di verificare e valutare, in fase esecutiva, l’impatto di sopravvenienze sui criteri di calcolo delle P.M., onde scongiurare l’iniquità in concreto ex post (dipendente, ad esempio, da un criterio di calcolo, posto dalla sentenza da ottemperarsi, fondato su meccanismi di accrescimento moltiplicativo esponenziale delle somme senza fissazione di un tetto massimo predeterminato). Secondo l’Adunanza plenaria tale potere deve essere riconosciuto al G.A. in sede di ottemperanza al fine di consentire la piena attuazione delle funzioni delle P.M. (deterrente/preventiva; sanzionatorio-punitiva), altrimenti la percezione di ingenti somme come P.M. realizzerebbe un ingiusto trasferimento di ricchezza in capo ad una delle parti (solitamente il privato in danno della P.A.), somme che poi si cumulerebbero con il risarcimento del danno, anche da impossibile esecuzione del giudicato (fattispecie pregiudizievole ad imputazione oggettiva secondo AP 2/2017) o da mancata/tardiva esecuzione (fattispecie pregiudizievole ad imputazione soggettiva). Il rimedio giuridico identificato per veicolare queste problematiche è il ricorso per chiarimenti (art. 112, comma 7, c.p.a.) – che prevede che il G.A. possa dare chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, anche su richiesta del commissario ad acta – attraverso cui la P.A. può così far valere la sopravvenuta manifesta iniquità delle P.M. (o può chiedere la fissazione di un tetto massimo che contenga la penalità evitandone l’iniquità). In tale sede il G.A. può così “identificare il tetto massimo, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell’art. 614 bis c.p.c., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato”. Attraverso il ricorso per chiarimenti è possibile dunque ottenere “delucidazioni in ordine al rapporto tra astreinte e decorso del tempo e delle sopravvenienze che lo hanno caratterizzato”. I chiarimenti sono la sede naturale ove valutare le sopravvenienze, posto che essi riguardano proprio le modalità applicative della minaccia, id est la concreta determinazione della sanzione alla luce del comportamento successivo delle parti e delle sopravvenienze fattuali e giuridiche, oggetto pacificamente sussumibile nell’ampio concetto di “modalità d’ottemperanza” di cui all’art. 112, comma 5, c.p.a. Con il ricorso per chiarimenti, quindi, è possibile ottenere l’identificazione del tetto massimo non manifestamente iniquo oltre il quale le somme dovute a titolo di penalità di mora non potrebbero incrementarsi, pena lo snaturamento delle funzioni delle P.M. e conseguentemente l’inapplicabilità dell’istituto del quo che altrimenti si estenderebbe al di fuori dei propri legali confini. Per completezza, a lezione, si è anche segnalato che l’AP 7/2019 ha identificato un altro rimedio per veicolare questa tipologia di censure: quello del reclamo avverso l’atto del commissario ad acta che tali chiarimenti non abbia ritenuto necessari. () Cons. Stato, ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7 (iniquità delle penalità di mora – modifiche ed integrazioni in sede di chiarimenti) E’ sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione. Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione ex tunc dei criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d’ottemperanza, sì da incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata. Tuttavia, ove il giudice dell’ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell’indeterminata progressività del criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest’ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell’art. 614 bis c.pc., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato. SENTENZE COLLEGATE (tutte in area riservata) () Cons. Stato, ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2 (rapporti tra giudizio di ottemperanza e giudizio ordinario di legittimità – atti successivi al giudicato)
() Cons. Stato, ad. plen., 25 giugno 2014, n. 15 (penalità di mora, ottemperanza e sentenze di condanna al pagamento di prestazioni di natura pecuniaria)
() Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2 (impossibilità di esecuzione in forma specifica del giudicato)

Parte della pagina (ESAME DELLA TRACCIA DI AMMINISTRATIVO ESTRATTA) creata il 7 giugno 2019, ore 19:00

(le presenti indicazioni ed i collegamenti tra gli istituti giuridici sovra menzionati sono creazione originale e riservata protetta dal diritto d’autore)

PROVA SCRITTA IN DIRITTO PENALE DEL 5 GIUGNO 2019

Traccia di PENALE: La responsabilità penale dell'incaricato alla riscossione del credito di terzi mediante violenza o minaccia.

LE ATTIVITÀ DEL CORSO (LEZIONI DEL CONS. ALBERTO MACCHIA).

Le varie tematiche inerenti la struttura della fattispecie concorsuale e le sue varie partizioni sono state affrontate a lezione più volte e sotto diversi angoli di visuale.

Anche da ultimo, nel rush finale, si è parlato tanto di concorso di persone che di concorso apparente di norme e dei vari criteri di soluzione (il rapporto tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, presentando un nucleo comune di condotta materiale, offre spunti al riguardo, in particolare sul versante degli elementi differenziali sul piano del dolo). Quando si è trattato, in particolare, del concorso si è posto l’accento su quelle ipotesi in cui la condotta è esclusiva del soggetto tipizzato dalla norma e si è fatto riferimento ai reati esclusivi, o di mano propria, a quelli semiesclusivi, in cui muta la qualificazione per il soggetto “estraneo” concorrente, e quelli non esclusivi. Il tutto con specifico riferimento al problema della portata da annettere all’art. 116 cod. pen

Nell’ambito della lezione sui reati contro il patrimonio si sono messe in luce le peculiarità che caratterizzano il reato di estorsione e sono stati, nella circostanza, analizzati i caratteri comuni e differenziali rispetto alla figura della “ragion fattasi” (alla luce, anche, delle numerose pronunce della Cassazione soffermatesi sul punto). In particolare, si è accennato alla giurisprudenza restia ad ammettere quest’ultima meno grave figura, tutte le volte in cui vi sia un “eccesso di mezzi rispetto al fine”; e si è fatto riferimento proprio alle figure di “intermediari” come ipotesi tendenzialmente denotativa di un passaggio dall’esercizio arbitrario alla estorsione, quante volte gli “esattori” perseguano un interesse proprio.

E’ stato proprio in questo contesto che è stata analizzata, anche criticamente, alla luce della migliore dottrina, la tesi della Cassazione che inquadra l’esercizio arbitrario come ipotesi di reato esclusivo o di mano propria, dal momento che la posizione del soggetto che “si fa ragione” da sé medesimo non equivale – secondo alcuni – ad affermare che si “debba necessariamente” far ragione da sé, ma possa anche agire per il tramite di terzi (un amico, un parente o qualsiasi soggetto non portatore di un “interesse” proprio).

 

Svolgimento ragionato sintetico a cura del Cons. Alberto Macchia.

La traccia evoca come primo punto di riflessione di carattere generale il tema del concorso di persone nel reato. Dunque, un primo approfondimento merita la natura e la funzione stessa della fattispecie concorsuale considerato che l’incarico implica un “mandato” che presuppone l’ontologico accordo di un mandante e di un mandatario. Esiste, dunque, già un primo punto di interesse, rappresentato dal fatto che è proprio la disciplina del concorso a consentire la “tipizzazione” dell’illecito. Solo attraverso il “combinato disposto” della generale previsione dettata dall’art. 110 cod. pen. e della figura incriminatrice di parte speciale è possibile configurare “l’esaurimento” della fattispecie in capo ai “compartecipi” dell’illecito. La natura e le caratteristiche del “mandato” spiegano, dunque, tutta la relativa carica di “predefinizione” della condotta esecutiva, dal momento che, in ipotesi di “scostamento” dal programma concordato può trovare applicazione il peculiare e problematico regime stabilito dall’art. 116 cod. pen., con le correlative aperture interpretative sul versante della “colpevolezza”.

Da qui l’ulteriore passaggio alla analisi delle diverse forme in cui può articolarsi il concorso, dal momento che non per tutti i reati “l’esecuzione” può essere delegata a terzi. Ma, tenuto conto del fatto che l’”incaricato” è portatore di una posizione soggettiva qualificata determinata dal mandato, il quale a sua volta presuppone l’esistenza, in capo al terzo, di una posizione anch’essa qualificata dalla esistenza del credito vantato, sorge il problema – in ipotesi di mandato alla riscossione del credito con violenza o minaccia – del titolo di estensione della responsabilità, e del più generale problema del concorso nel reato “proprio” e dell’eventuale mutamento del titolo del reato a norma dell’art. 117 cod. pen. Disciplina, quest’ultima, che merita attenzione per i problemi che essa pone in teoria generale e sul versante della relativa portata derogatoria rispetto ai principi sanciti dall’art. 47, terzo comma, cod. pen. Sul piano oggettivo, infatti, il titolare di una determinata qualità soggettiva  – quello che di regola si qualifica come “l’intraneo” – deve realizzare la condotta tipica solo nei casi dei cosiddetti “reati esclusivi”, i quali, per loro natura, sono reati definiti “di mano propria”, vale a dire a realizzazione personale, in quanto non possono essere realizzati “per interposta persona” ( si pensi al falso giuramento, che richiede la condotta da parte di quello specifico soggetto; all’incesto, che presuppone il rapporto sessuale tra persone legate da vincoli specifici). Non così accade – secondo alcuni – per i reati propri (quelli che richiedono, ad esempio, la qualifica di pubblico ufficiale) ma non esclusivi, così come per i reati cosiddetti “semiesclusivi”, nei quali il fatto, senza la qualifica, subirebbe soltanto un mutamento del titolo del reato, vale a dire si trasformerebbero da reato proprio in un reato comune (peculato, appropriazione indebita). Teli distinzioni rileveranno per quel che si dirà a proposito di un recente e in parte discusso approdo giurisprudenziale.

Lo sviluppo ulteriore della traccia non potrà non misurarsi con quelle fattispecie che più da vicino – anche alla luce della evoluzione giurisprudenziale – affrontano il tema della riscossione di crediti mediante l’uso della violenza o della minaccia. In particolare, vengono in discorso i problematici rapporti tra le fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle cose o con violenza o minaccia alle persone (artt. 392 e 393 cod. pen.), ed il ben più grave delitto di estorsione di cui all’art. 629 cod. pen. Il primo, come è noto, è un delitto contro l’amministrazione della giustizia il cui prestigio viene leso appunto dal fatto che il privato, pur potendo ricorrere al giudice, si fa ragione “arbitrariamente” da sé medesimo, usando metodi in sé antigiuridici, e tesi a coartare la libertà di autodeterminazione del singolo. L’estorsione, invece, è reato contro il patrimonio e la libertà di autodeterminazione della persona, integrato dalla condotta di chi con violenza o minaccia, costringendo taluno a fare od omettere qualcosa, procura per sé o per altri un “ingiusto profitto”, con altrui danno. Le due fattispecie, vanno quindi analizzate con attenzione, perché i relativi connotati si presentano in molti casi sfuggenti, dando luogo a perplessità, proprio nelle ipotesi “classiche” in cui terzi si intromettano – con condotte violente – per riscuotere somme, non sempre facilmente riconducibili ad un credito certo, liquido ed esigibile ed azionabile davanti al giudice.

In giurisprudenza, infatti, è assolutamente prevalente l’orientamento secondo il quale integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa o violenta che, estrinsecandosi in forme talmente aggressive da annichilire le capacità di reazione della vittima e trasformarla in mero strumento di soddisfazione delle pretese dell’autore, esorbita dal ragionevole intento di far valere un preteso diritto. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la qualificazione come estorsione della condotta di un soggetto che, per far valere un credito verso la persona offesa, aveva preteso interessi usurari e l’aveva sottoposta ad un violento pestaggio). (Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018 – dep. 10/12/2018). Ma l’assunto potrebbe essere smentito dal fatto che, strutturalmente, le due fattispecie non divergono per “qualità” della condotta, tant’è che l’art. 393 espressamente prevede una aggravante se la violenza o la minaccia alla persona è commessa addirittura con armi. Un orientamento minoritario, infatti, afferma che integra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e non quello di estorsione, la condotta di chi si adoperi con violenza o minaccia per realizzare un preteso diritto che potrebbe tutelare in sede giudiziale, anche se utilizza modalità di particolare forza intimidatoria, atteso che l’intensità o la gravità della violenza o della minaccia non costituiscono profili oggettivi incidenti sulla qualificazione giuridica del fatto. (Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017 – dep. 13/02/2018).

La terza parte dello sviluppo della traccia richiede, nell’ambito del concetto di “incaricato”, l’analisi delle diverse posizioni che l’esattore può assumere ove per l’adempimento del mandato impieghi, per conseguire il pagamento del credito, l’uso della violenza o della minaccia. Ad una prima riflessione di carattere teorico sulla sussistenza o insussistenza, in capo all’incaricato, della stessa “posizione” del titolare di un credito giudizialmente azionabile, deve conseguire una analisi della possibile “frattura” che subisce la condotta “arbitraria”, a seconda che la stessa sia esercitata direttamente dal titolare (integrazione della fattispecie), oppure per il “tramite” della tipizzazione offerta dall’art. 110 cod. pen., dal momento che le “prospettive” delle condotte possono anche divergere. Altro, infatti, è l’agere dell’”esattore” che si limiti a realizzare il “fatto” del creditore, altro è l’esattore “per mestiere” che cura anche un profitto proprio oltre che quello del creditore “mandante”. In passato, infatti, la giurisprudenza era orientata ad affermare che integra il reato di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta di colui che, incaricato dell’esazione di un credito per conto di un terzo, ponga in essere l’attività intimidatoria anche per il conseguimento di un proprio profitto. (fattispecie in cui i concorrenti nel reato procedevano alla spartizione delle somme conseguite). (Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013 – dep. 22/05/2013).

Più di recente, invece, la Corte di cassazione è giunta ad affermazioni diverse. Si è infatti ritenuto che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto. Ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (per agevolazione, o anche morale), mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 cod. pen. (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016 – dep. 03/11/2016).

Si tratta di una conclusione che non ha trovato peraltro consensi unanimi in dottrina e giurisprudenza, proprio sul versante teorico della ricostruzione del reato di cui all’art. 393 cod. pen. come reato cosiddetto esclusivo o di mano propria; infatti, la struttura della fattispecie non si presta – sul piano ontologico – ad una simile ricostruzione, finendo per attrarre nel perimetro della assai più grave fattispecie della estorsione le condotte “disinteressate” di quanti si limitino a realizzare il fatto tipico ascrivibile al mandante.

 

Le attività del Corso (sintesi lezione del Cons. Alberto MACCHIA) – ESAME DELLA GIURISPRUDENZA RILEVANTE (a cura del Cons. Pasquale FAVA)

A) SULLA POSSIBILITA’ CHE TERZI NON TITOLARI DEL DIRITTO PONGANO IN ESSERE LE CONDOTTE DI ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI.

TESI TRADIZIONALE: La tesi che ammette che il terzo, agendo alla stregua di un negotiorum gestor dell’effettivo titolare del diritto, possa commettere il reato di cui all’art. 393 c.p. è stata sostenuta in giurisprudenza, tra l’altro, da:

Cass., 9 aprile 2001, n. 14335: “In tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto attivo del reato può anche essere colui che non abbia la titolarità del diritto arbitrariamente esercitato, ma che agisca quale mero negotiorum gestor dell’effettivo titolare (fattispecie relativa all’arbitrario esercizio di un diritto del quale è risultato essere titolare il coniuge del soggetto agente)

Cass., 20 gennaio 2004, n. 1257: “In tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, soggetto attivo del reato può essere anche persona diversa dal titolare del diritto illecitamente tutelato, quando questa abbia agito secondo lo schema della “negotiorum gestio” (fattispecie relativa a condotta di violenza sulle cose attuata per esercitare il presunto diritto di proprietà di un figlio dell’agente)”;

Cass., 29 maggio 2013, n. 23322: “Soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose può essere anche chi esercita il preteso diritto pur non avendone la titolarità, in quanto, ai fini della configurabilità del delitto, rileva che l’agente si comporti come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà (fattispecie in cui l’imputato, al fine di assicurare la somministrazione di energia elettrica al fondo del padre, aveva collocato nel fondo di un vicino dei pali perché l’Enel potesse esercitare la servitù di elettrodotto)”.

TESI INNOVATIVA: Soprattutto in seno alla Sezione II è maturato l’orientamento che ha perorato la natura di reato proprio ed esclusivo della fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con la conseguenza che ove sia il terzo a porre in essere la condotta violenta o minacciosa il reato dovrebbe essere necessariamente qualificato come estorsione.

La tesi è stata sostenuta da Cass., sez. II, 3 novembre 2016, n. 46288, la quale ha argomentato come segue:

9.2. A parere del collegio, il denunciato contrasto di orientamenti è più apparente che reale.

9.2.1. Occorre premettere che, ai fini della risoluzione del problema in esame, non è possibile trarre utili indicazioni dalla Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, sul punto assolutamente silente.

9.2.2. La materialità dei due reati in questione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. 2^, n. 11453 del 17 febbraio 2016, Guarnieri, rv. 267123), poichè soltanto ai fini dell’integrazione dell’estorsione necessita il verificarsi di un effetto di “costrizione” sulla vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: “mediante violenza sulle cose”; art. 393 c.p.: “usando violenza o minaccia alle persone”; art. 629 c.p.: “mediante violenza o minaccia”): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente, “che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno. Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato”).

9.2.3. Nondimeno, la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia deve mirare ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile.

9.2.4. Sia l’art. 393 c.p., comma 3, che l’art. 629 c.p., comma 2 (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628 c.p., comma 3, n. 1) prevedono che la pena è aumentata “se la violenza o minaccia è commessa con armi”.

La circostanza aggravante speciale de qua non legittima distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco, ed evidenzia la possibilità di qualificare come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza (o minaccia) alle persone, aggravato dall’uso di un’arma, anche le condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza (o minaccia) di particolare gravità, e comunque sproporzionata rispetto al fine perseguito, o tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima (secondo l’id quod plerumque accidit, disarmata).

Detto riferimento appare decisivo, atteso che, in quest’ultimo caso, la condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è.

9.2.4.1. Quest’ultima argomentazione non risulta mai esaminata, nè quindi validamente confutata, nell’ambito dell’orientamento riepilogato sub p. 9.1., che si limita tout court a non considerarla.

9.2.5. A parere del collegio, una prima distinzione tra i reati in oggetto può riguardare il soggetto attivo.

9.2.5.1. Invero, il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p., come soggetto agente, unicamente da “chiunque… sì fa arbitrariamente ragione da sè medesimo”: detta espressa previsione (sin qui non adeguatamente valorizzata dalla dottrina, che si limita a darne una interpretazione meramente descrittiva, e del tutto trascurata dalla giurisprudenza) impone di ritenere che il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano in quanto la loro esecuzione implica l’intervento personale diretto del soggetto designato dalla legge; la condotta tipica oggetto di incriminazione può, quindi, assumere rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce, soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo.

9.2.5.2. Tale rilievo potrà risultare decisivo nei casi di reati commessi in concorso, poichè, se la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p., è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della p.o., che agisca su mandato del creditore, essa potrà assumere rilievo soltanto ex art. 629 c.p., giammai a titolo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

In tutti gli altri casi, nei quali la condotta tipica è posta in essere da chi agisce per “farsi ragione da sè medesimo”, sarà, al contrario, configurabile – in ipotesi (e salva la considerazione delle eventuali peculiarità dei singoli casi concreti) il concorso (per agevolazione, od anche morale) di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della p.o. nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

9.2.5.3. Quanto appena osservato costituisce conseguenza diretta ed immediata della particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che sono posti a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può – in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) – essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione “da sè medesimo”, non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia.

9.2.6. Nell’ambito della dottrina, può senza dubbio definirsi unanime il convincimento che i due reati in oggetto si distinguano in relazione al fine perseguito dall’agente.

9.2.6.1. Le dottrine tradizionali avevano autorevolmente evidenziato che, nel caso in cui l’agente “non agì per trarre ingiusto profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, ma per uno scopo diverso, potrà ricorrere il titolo di (..) esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o altro; ma non quello di estorsione”, osservando che “spesso però l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto (…), non è che un pretesto per larvare l’estorsione”, ed ammonendo i giudici quanto all’opportunità di adoperare “molta cautela nell’accertare il vero scopo dell’agente”; naturalmente, “pur mirando l’agente anche a conseguire il profitto relativo a un preteso diritto esistente o supposto, la estorsione sussiste) quando egli chieda più di ciò che tale diritto comporta”.

Ed ancora, che l’estorsione presenta tratti comuni con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, “ma a stabilirne la diversità basta l’elemento psicologico, che nel secondo consiste nel fine di esercitare un preteso diritto, quando si abbia la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria”.

Altra dottrina, con pari autorevolezza, ha successivamente ritenuto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni “richiede il fine di esercitare un preteso diritto azionabile e l’estorsione la coscienza e volontà di conseguire un profitto non fondato su alcuna pretesa giuridica”.

Analogamente, la dottrina più recente afferma, altrettanto autorevolmente, che “il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di conseguire un ingiusto profitto”.

9.2.7. Fermo quanto osservato nei p.p. 9.2.5. ss. quanto al soggetto attivo, ed alle conseguenze in tema di concorso di persone nel reato, deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono tendenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto eventualmente infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.

9.2.7.1. A tal proposito, è, peraltro, necessario precisare, onde evitare possibili (ed anzi, per la verità, molto frequenti nella pratica) interpretazioni strumentali, che, ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni:

– la pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato (Sez. 5^, n. 2819 del 24 novembre 2014, dep. 2015, rv. 263589);

– l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria (Sez. 5^, n. 23923 del 16 maggio 2014, rv. 260584), ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale. Per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non è, infatti, necessario che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, ma occorre pur sempre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale.

9.2.7.2. In applicazione del principio, è stata, ad esempio, già ritenuta la configurabilità del delitto di estorsione, e non di quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poichè in tal caso egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. 2^, n. 9931 del 9 marzo 2015, Iovine, rv. 262566), e con riguardo alla pretesa (esplicitata in più occasioni con violenza e minacce) di ottenere, per conto di terzi creditori, l’adempimento di un debito dal padre del debitore, poichè essa non è tutelabile dinanzi l’Autorità giudiziaria, ma è diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2^, n. 16658 del 16 gennaio 2014, D’Errico, rv. 259555, e n. 45300 del 28 ottobre 2015, Immordino, rv. 264967).

9.2.8. Alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, peraltro, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.

9.2.8.1. E’ noto, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.

9.2.8.2. Come acutamente osservato da Sez. 2^, n. 44476 del 3 luglio 2015, Brudetti, rv. 265320, erroneamente, collocata tra le sentenze che accolgono l’orientamento contrario a quello qui sostenuto (che, al contrario, in motivazione premette espressamente di condividere), “considerato che, come rilevato in dottrina, la doloscopia non è stata ancora inventata, e che quindi il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante, appare evidente che le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.”, ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile.

9.2.8.3. Anche Sez. 5^, n. 19230 del 3 maggio 2013, Palazzotto, rv. 256249, a sua volta erroneamente, collocata tra le sentenze che accolgono l’orientamento contrario a quello qui sostenuto, premette di ritenere “certamente esatto il rilievo che si legge nella impugnata sentenza, in base al quale il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona, non tanto per la materialità del fatto, che può essere identica, quanto per l’elemento intenzionale che, nell’estorsione, è caratterizzato, diversamente dall’altro reato, dalla coscienza dell’agente che quanto egli pretende non gli è dovuto”, ed aggiunge che “nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e, pertanto, non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto, configurandosi in tal caso il più grave delitto di estorsione”.

9.2.8.4. Si è, ad esempio, già ritenuto che integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso”, e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di matrice ‘ndranghetistica, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2^, n. 34147 del 30 aprile 2015, P.G. in proc. Agostino, rv. 264628: fattispecie in cui l’imputato, che aveva prestato alla persona offesa somme di denaro nell’esercizio abusivo di attività di intermediazione finanziaria, secondo la prospettazione difensiva, per recuperare gli importi erogati, avrebbe potuto proporre azione di indebito arricchimento, ex art. 2041 c.c.).

9.2.9. A ben vedere, il denunciato contrasto di orientamenti (cfr. p. 9 s. di queste Considerazioni in diritto) risulta più apparente che reale, riguardando, oltre che decisioni erroneamente considerate, mere enunciazioni di principio in realtà ininfluenti ai fini della decisione.

9.2.9.1. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2^, n. 1921 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Li, rv. 265643, si era accertato che l’agente aveva richiesto al proprio debitore “una somma maggiore di quanto dalla stessa in precedenza richiesto perchè a suo dire bisognava pagare i ragazzi (cioè i concorrenti nel reato da lei chiamati ad agire con violenza e minacce nei confronti della persona offesa)”: quindi, anche a prescindere dal fatto che “le modalità di soddisfacimento del preteso diritto erano travalicate in forme di particolare violenza, sistematicità e pervicacia”, pure valorizzato, l’agente ed i terzi incaricati della riscossione avevano perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.

9.2.9.2. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2^, n. 44657 dell’8 ottobre 2015, Lupo, rv. 265316, gli imputati avevano posto in essere condotte violente e minacciose nei confronti delle diverse persone offese – per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall’acquisizione della percentuale concordata come “tangente” per la riscossione delle somme, e quindi per la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.

9.2.9.3. Nella fattispecie esaminata dalla già citata Sez. 2^, n. 44476 del 3 luglio 2015, Brudetti, rv. 265320, alla p.o., sottoposta ad una serie continua di gravi minacce da parte di più persone, singolarmente e in gruppo, “fu poi intimato di firmare cambiali in bianco (che effettivamente in seguito firmò a decine sul cruscotto di un’autovettura nei pressi dello stadio di (OMISSIS)) e venne anche prospettata (…) la possibilità di lavorare, unitamente ai fratelli, presso un’azienda della zona, onde guadagnare le somme necessarie a ripianare l’esposizione debitoria (prospettiva imposta con la forza dell’intimidazione, e non quale espressione sintomatica di una libera scelta lavorativa)”: i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, non essendo mossi dal “ragionevole intento di affermazione di un preteso diritto”.

9.2.9.4. Nella fattispecie esaminata da Sez. 6^, n. 17785 del 25 marzo 2015, Pipitone, rv. 263255, i contratti preliminari ai quali, con le violenze accertate, si intendeva indurre le pp.OO. a far seguire la stipula un contratto di vendita di quota, erano “stati stipulati nel 1989, non dagli attuali soci della (…) s.r.l. ma dagli originari soci della stessa (…); occorreva, dunque, un formale conferimento della relativa posizione negoziale nella società e di tanto manca agli atti la prova si che, dal punto di vista documentale, come evidenziato dal Tribunale, la pretesa ancorata al citato preliminare risulta comunque riferibile a soggetti diversi dagli odierni indagati (…)”; i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.

9.2.9.5. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2^, 9759 del 10 febbraio 2015, Gargiuolo, rv. 263298, l’imputato, per riscuotere il suo credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il suo locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai suoi familiari ove non avesse pagato il debito, ed aveva quindi perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, avendo agito anche in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio vantato.

9.2.9.6. Nella fattispecie esaminata da Sez. 5^, n. 19230 del 3 maggio 2013, Palazzotto, rv. 2256249, ricorreva, con riferimento ad entrambi i tentativi di estorsione contestati e ritenuti, la circostanza aggravante di cui alla legge 203 del 1991, art. 7, “in quanto le modalità della minaccia, la sua stessa indeterminatezza, l’intervento di persona formalmente estranea al rapporto tra S. e T., la vicinanza di P. a personaggi della famiglia F. (ovviamente la separazione legale di questo imputato dalla moglie di per sè non può essere circostanza significativa), la richiesta di versare Euro 15.000 a favore proprio della famiglia mafiosa del quartiere, sono tutte circostanze che militano, come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, nel senso della sussistenza dell’utilizzazione del metodo mafioso. E se, erroneamente, anche il secondo giudice ha escluso, con riferimento al primo episodio estorsivo, la sussistenza della predetta aggravante (e tale errore non può essere corretto in mancanza di una impugnazione sul punto della parte pubblica), non vi è ragione per la quale non si debba riconoscerne la sussistenza e la operatività con riferimento al secondo episodio estorsivo”. L’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata costituiva, pertanto, indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di soddisfazione di una legittima pretesa civilistica.

9.2.9.7. Appare inutile proseguire la disamina anche in riferimento alle decisioni, in apparenza contrarie, più risalenti.

9.2.10. Vanno, conclusivamente, affermati i seguenti principi di diritto:

– il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) è posto a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie;

– il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra tra i cc. dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano perchè la condotta tipica assume rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce soltanto se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo; ne consegue che, se la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p., è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della p.o., che agisca su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie. (Nei casi in cui la condotta tipica è posta materialmente in essere da chi intende “farsi ragione da sè medesimo”, è, al contrario, configurabile il concorso – per agevolazione, od anche morale – nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della p.o.);

– il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione si distinguono quanto al soggetto attivo, perchè soltanto il primo è un reato proprio esclusivo o c.d. di mano propria, e quanto all’elemento psicologico, perchè, nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto ingiusto, nella piena consapevolezza della sua ingiustizia;

– per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) occorre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente. La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato;

– ai fini della distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione, l’elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia di per sè non legittima la qualificazione del fatto ex art. 629 c.p., poichè l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può risultare – come l’estorsione aggravato dall’uso di armi, ma può costituire indice sintomatico del dolo di estorsione” (Cass., sez. II, 3 novembre 2016, n. 46288).

 

Successivamente la Cassazione ha ribadito questo nuovo orientamento nelle sentenze Cass., sez. II, 17 maggio 2017, n. 24478, Cass., 11 luglio 2017, n. 33712 e Cass., 31 luglio 2018, n. 36928: “si tratta di giurisprudenza che rassicura sulla qualificazione del fatto come estorsione ogni volta che il titolare del diritto dia ad un terzo il mandato alla riscossione del credito: l’inquadramento dell’esercizio arbitrario come un reato proprio “esclusivo” esclude la delega della condotta di ragion fattasi e, di fatto, in relazione all’art. 393 cod. pen. Inibisce l’operatività della norma generale sul concorso di persone nel reato. La Cassazione ha infatti chiarito che nei reati propri cosiddetti “esclusivi” occorre che il soggetto qualificato (o intraneo), concorrente con altri, sia il personale esecutore del fatto tipico (ad esempio, nel reato di incesto), essendo questa l’indispensabile condizione per la sussistenza del reato proprio, prospettandosi, in difetto, reato comune ovvero nessun reato. Soltanto in tali ipotesi si esige, dunque, la personale realizzazione della fattispecie tipica ad opera dell’intraneo, e tale condizione va ricavata dalla descrizione letterale della condotta materiale o dalla natura del bene o interesse giuridicamente protetto o da altri elementi significativi – ad esempio, particolari rapporti tra autore e soggetto passivo. Diversamente nei reati “propri” comuni, ovvero non “esclusivi” non è indispensabile che proprio l’intraneo sia l’esecutore dell’azione tipica, che può materialmente essere realizzata da altro concorrente, purchè quello qualificato dia, secondo le regole generali, il suo contributo efficiente, in qualsiasi forma, compresa, quindi, quella omissiva della volontaria e concertata astensione dall’obbligo di impedire l’evento (Cass., sez. I 30 aprile 1991, n. 4820). Senza rinnegare tale ultimo approdo si rileva che ogni volta che il mandato alla riscossione del credito è conferito a soggetti dotati di particolare capacità persuasiva in quanto appartenenti a consorzi criminali con riconosciuta capacità criminale è ragionevole che l’azione violenta produca l’effetto costrittivo della libertà personale che, si è visto, è già da solo sufficiente a risolvere la vexata quaestio della diagnosi differenziale tra reati limitrofi. A ciò si aggiunga che di regola il terzo esattore è mosso da un interesse proprio non coincidente con quello del mandante, consistente nell’accrescimento della propria capacità criminale (fonte dell’assegnazione di ulteriori incarichi e generatore di profitti): il che consente, anche da questa ulteriore prospettiva di escludere il concorso nel reato proprio in quanto il profilo soggettivo dell’esecutore in tale caso non è sovrapponibile con quello dell’autore del reato di ragion fattasi, essendo preminente l’interesse personale all’accrescimento del proprio prestigio criminale rispetto alla soddisfazione del credito altrui (in tal senso Cass., sez. II, 18 marzo 2016, n. 11453; Cass., sez. II, 4 ottobre 2016, n. 41433)” (Cass., 31 luglio 2018, n. 36928).

 

B) I CRITERI PRETORI PER DIFFERENZIARE LE FATTISPECIE DI ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI (ART. 392-393 C.P.) ED ESTORSIONE (629 C.P)

La differenza tra esercizio arbitrario e estorsione è problematica reiteratamente affrontata dalla giurisprudenza penale, la quale nel tempo, ha conosciuto una magmatica e complessa evoluzione in ordine ai criteri discretivi.

Si è precisato che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, presentano in comune il nocciolo della violenza o minaccia, con la necessità di identificare idonei parametri onde differenziare le fattispecie contermini.

B.1.) La giurisprudenza TRADIZIONALE ha escluso la configurabilità del meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, applicando quello più grave di estorsione facendo leva originariamente sui seguenti criteri:

1) la tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta (mancando tale presupposto, ad accertamento giudiziale preliminare, non potrebbe che sussistere il reato di estorsione); in più si è spesso precisato che la pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, atteso che ciò che caratterizza il reato è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico, con quello privato.

2) l’analisi esclusivamente incentrata sull’elemento soggettivo del reato: la fattispecie estorsiva si realizzerebbe, indipendentemente dall’intensità e dalla gravità della violenza o della minaccia, solo qualora essa miri all’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria: in sostanza nell’estorsione l’agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto; nel delitto di cui all’art. 393 c.p., invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione, ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, giudizialmente azionabile, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria: occorrerebbe, pertanto, che l’agente sia soggettivamente – pur se erroneamente, ma plausibilmente – convinto dell’esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale (elaborazione giurisprudenziale più antica).

3) il livello di gravità dell’azione minatoria (orientamento prevalente nell’ultimo decennio), che, ove particolarmente intensa giustificherebbe il riconoscimento dell’estorsione (criterio ora superato dalla giurisprudenza più recente che ha evidenziato come il reato di cui all’art. 393 c.p. può realizzarsi anche attraverso l’uso delle armi); l’orientamento che si fonda sull’applicazione esclusiva di questo criterio valorizza, ai fini della predetta distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all’art. 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non è fine a se stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza; pertanto, quando la minaccia si estrinseca in forme di tal forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia (per tale ragioni in determinate circostanze e situazioni anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva). Secondo questo indirizzo, dunque, a fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all’autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, occorrerebbe verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimarrebbe indubbiamente nell’ambito dell’estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima.

B.2.) La giurisprudenza PIU’ RECENTE, pur confermando la necessità dell’indagine sul presupposto sub 1 (Cass., sez. II, 16 gennaio 2017, n. 1901; Cass., sez. II, 17 maggio 2017, n. 24478) e manifestando una propensione ad un utilizzo combinato dei criteri sub 2 e 3 (Cass., sez. II, 12 dicembre 2016, n. 52525 e Cass., sez. II, 14 dicembre 2018, n. 56400), ha rivisitato questi criteri muovendosi sul piano strutturale e finalistico della fattispecie incriminatrice.

Dal punto di vista STRUTTURALE si è affermato che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia proprio ed esclusivo, con conseguenziale esclusione del 393 c.p. ed applicazione dell’art. 629 c.p. in presenza di condotte poste in essere da terzi estranei (sul presupposto che il reato di cui all’art. 393 c.p. sia proprio ed esclusivo Cass., sez. II, 17 maggio 2017, n. 24478, Cass., 11 luglio 2017, n. 33712 e Cass., 31 luglio 2018, n. 36928), ovvero, in ipotesi di richieste di adempimento del rapporto obbligatorio, rivolte nei confronti di terzi (spesso familiari) vicini al debitore minacciato (Cass., 16 gennaio 2014, n. 16658; Cass., 28 ottobre 2015, n. 45300; Cass., 3 novembre 2016, n. 46288; Cass., 20 dicembre 2017, n. 5092; Cass., 31 luglio 2018, n. 36928).

Dal punto di vista FUNZIONALE si è posta al centro della scena la tutela della persona della vittima rilevando che l’estorsione è configurabile solo ove l’azione violenta o minacciosa sia idonea a coartare la vittima (ledendo la sua libertà di autodeterminazione), mentre l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, invece, si ravvisa ove l’agente abbia posto in essere una più blanda condotta persuasiva (Cass., sez. VI, 10 marzo 2017, n. 11823; Cass., 2 febbraio 2018, n. 5092; Cass., 31 luglio 2018, n. 36928, sentenza che acutamente precisa che “la soddisfazione di un preteso diritto attraverso la coazione alla persona non può che essere ingiusto. Diversamente opinando l’uso della violenza costrittiva per regolare in via privata sarebbe sanzionata meno gravemente in presenza di un diritto e più gravemente in sua assenza: si tratta di un epilogo ermeneutico che si traduce nell’abbattimento della rilevanza penale della costruzione illecita giustificata da pretese patrimoniali, che contrasta con la dimensione assoluta e prioritaria dei diritti della persona”).

Parte della pagina (ESAME DELLA TRACCIA DI PENALE ESTRATTA) creata il 5 giugno 2019, ore 22:20

(le presenti indicazioni ed i collegamenti tra gli istituti giuridici sovra menzionati sono creazione originale e riservata protetta dal diritto d’autore)

PROVA SCRITTA IN DIRITTO CIVILE DEL 4 GIUGNO 2019

Traccia di CIVILE: “Modi di acquisto delle servitù prediali. Tratti in particolare il candidato della servitù di mantenere una costruzione a distanza illegale da altra costruzione o dal confine e della configurabilità della medesima servitù in caso di immobile costruito abusivamente”.

ATTIVITA' FORMATIVE DEL CORSO

Traccia di CIVILE: “Modi di acquisto delle servitù prediali. Tratti in particolare il candidato della servitù di mantenere una costruzione a distanza illegale da altra costruzione o dal confine e della configurabilità della medesima servitù in caso di immobile costruito abusivamente”.

Traccia classica affrontata a lezione quest’anno.
L’argomento è stato altresì oggetto di una specifica simulazione di concorso.  
Nel corso del rush finale gratuito riservato è stata sollecitata la ripetizione di tutte le problematiche esaminate nella lezione sulle distanze, nonché il possesso, l’usucapione, le servitù.
STRUTTURA DEL TEMA ESTRATTO (a cura del Cons. Pasquale Fava)
Il tema si compone sostanzialmente di tre parti.
La prima, molto istituzionale e presente in tutti i manuali, è quella inerente il diritto di servitù e i relativi modi di acquisto. Ogni candidato avrebbe ben potuto affrontare questa parte agevolmente, sia perché rientrante nei programmi di studio del livello base del Corso (Gazzoni, pag. 266-271), sia perché il Codice civile aiuta a ricostruire con semplicità la tematica. E’ evidente che saranno premiati coloro che hanno ben strutturato i titoli costitutivi di acquisto (convenzione, sentenza, atto amministrativo, testamento, destinazione padre di famiglia, usucapione) e magari hanno anche accennato a figure problematiche (possibilità di costituire la servitù con atto unilaterale inter vivos – scartata dalla tesi prevalente; la c.d. deductio servitutis).
La seconda, parimenti classica, è quella delle distanze. Qui si sarebbe dovuta sinteticamente ricostruire la disciplina in materia (il Codice è, anche sotto questo profilo, di grande ausilio), affrontando anche alla recente sentenza delle Sezioni unite 19 maggio 2016, n. 10318 (), intervenuta sul principio di prevenzione (art. 873 c.c.) e sulle previsioni dei regolamenti edilizi comunali che fissino una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal Codice civile.
La terza parte dello svolgimento avrebbe dovuto affrontare nello specifico il contenuto del diritto di servitù menzionato dalla traccia (mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella legale), anche alla luce del dibattito esistente in seno alla giurisprudenza di legittimità in merito alla usucapibilità di tali servitù, pure con riguardo agli immobili costruiti abusivamente (aspetto sul quale si è spesso pronunciata la Cassazione nell’ultimo decennio). Era chiaramente quest’ultima la parte più difficile del tema.
ATTIVITA’ DEL CORSO – CONTENUTI SPECIFICI DELLA LEZIONE UTILIZZABILI PER LO SVOLGIMENTO DELLA TRACCIA ESTRATTA (lezioni del Cons. Pasquale FAVA)
Quest’anno si è spiegata nel corso delle lezioni sulla proprietà e i diritti reali una traccia specifica in materia di distanze in cui sono stati esaminati in dettaglio i principi guida che avrebbero consentito un sereno approccio allo svolgimento del tema estratto al concorso sulle tecniche di costituzione della servitù di mantenere una costruzione a distanza inferiore a quella legale.
Nel corso del rush finale è stata raccomandata la ripetizione di questa lezione alla luce della sensibilità di svariati commissari rispetto alla materia dei diritti reali.
A) Si è affrontata ex professo la disciplina sulle distanze (Codice civile, legislazione speciale sopravvenuta – legge Ponte n. 765/1967, DM 1444/68 e decreto del fare), la ricca evoluzione dei precedenti delle Sezioni unite intervenute in materia, dedicando un focus specifico alla sentenza n. 10318/2016 (secondo la quale il principio di prevenzione opera se i regolamenti edilizi prevedono distanze tra fabbricati in misura fissa o ragguagliata all’altezza, mentre non opera se i regolamenti commisurino la distanza rispetto al confine).
B) Circa la possibilità di costituire inter vivos, mortis causa o di acquistare per usucapione questa particolare servitù durante la lezione è stato evidenziato quanto segue (la trattazione dell’argomento specifico è durata più di un’ora nell’ambito di una lezione complessiva di 6 ore).
In primo luogo è stata ben descritta la arcinota differenza tra norme edilizie integrative e non integrative del Codice civile.
Le prime (integrative) perseguono interessi pubblici e anche interessi privati (tra queste figurano quelle sulle distanze). Contro la violazione di queste norme è possibile esperire rimedi di tutela reale (riduzione in pristino – azione reale assimilabile all’actio negatoria servitutis) e risarcitoria (azione personale).
Le seconde (non integrative) tendono a perseguire esclusivamente interessi pubblici. La violazione di queste norme offre una tutela esclusivamente risarcitoria.
In secondo luogo è stato precisato che la giurisprudenza di legittimità ha fornito precisazioni sullo stato patologico delle convenzioni private in deroga alle norme edilizie: le norme del Codice civile sono normalmente dispositive (quindi liberamente derogabili dai privati, con piena validità degli accordi in deroga), mentre le norme edilizie, essendo preordinate alla tutela degli interessi pubblici, sono imperative – di ordine pubblico (quindi inderogabili, con invalidità delle previsioni pattizie in deroga).
In terzo luogo è stato anche specificato che applicando questi principi alla servitù del diritto di mantenere la costruzione a distanza inferiore rispetto a quella legale, la giurisprudenza di legittimità prevalente ha affermato che, anche se le norme in materia di distanze sono imperative (di ordine pubblico) e quindi i privati non possono derogarvi (ogni atto convenzionale sarebbe nullo), tuttavia, il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore rispetto a quella legale integra una “situazione possessoria” sostanzialmente corrispondente all’ontologia del diritto di servitù e come tale è usucapibile (essendo una servitù apparente). Del resto le Sezioni unite (Cass., sez. un., 12 giugno 2006, n. 13523 ()) hanno chiarito che la domanda diretta a denunziare la violazione della distanza legale da parte del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l’arretramento della sua costruzione, tendendo a salvaguardare il diritto di proprietà dell’attore dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e ad impedirne tanto l’esercizio attuale, quanto il suo acquisto per usucapione, ha natura di “actio negatoria servitutis” ed è, pertanto, soggetta a trascrizione (ai sensi sia dell’art.2653 n.1 cod. civ., che, essendo suscettibile di interpretazione estensiva, è applicabile anche alle domande dirette all’accertamento negativo dell’esistenza di diritti reali di godimento, sia del successivo n.5, che dichiara trascrivibili le domande che interrompono il corso dell’usucapione su beni immobili).
In quarto luogo è stato poi evidenziato nello specifico che, essendo l’obiettivo perseguito dall’indirizzo pretorio ad oggi prevalente quello di dare stabilità alle situazioni private, l’usucapione può operare, secondo questa tesi giurisprudenziale, anche in relazione a situazioni amministrativamente illecite (immobili abusivi). Questo indirizzo della giurisprudenza di legittimità ha inteso differenziare due rapporti: 1) quello tra privati (ove opera l’acquisto per usucapione onde stabilizzare e dare certezza alle situazioni reali); 2) quello tra privato usucapiente e P.A. (ove restano fermi i poteri di repressione degli illeciti edilizi, con doverosa adozione di tutti i provvedimenti idonei, compresi quelli volti alla demolizione della costruzione edificata illegittimamente).
Quindi, in conclusione, secondo la tesi della giurisprudenza prevalente, la servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione edificata a distanza inferiore a quella legale non può essere costituita per atto negoziale inter vivos (essendo nulla per violazione delle norme sulle distanze che hanno natura imperativa essendo di ordine pubblico), ma può essere acquistata per usucapione.
E’ stato segnalato, tuttavia, che questo indirizzo, anche se molto nutrito in giurisprudenza, non è tuttavia pacifico, avendo la Suprema Corte seguito in altra occasione la tesi della inammissibilità dell’usucapione di questo tipo specifico di servitù.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI DI LEGITTIMITA’ SULLA USUCAPIBILITA’ DELLA SERVITU’ DI MANTENERE LA COSTRUZIONE A DISTANZA INFERIORE DAL CONFINE ANCHE SE L’IMMOBILE E’ ABUSIVO (a cura del Cons. Pasquale Fava)
TESI MINORITARIA
La tesi isolata e minoritaria sulla impossibilità di usucapire tale specifica servitù è stata proposta da Cass., sez. II, 3 ottobre 2007, n. 20769 (): “In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi inammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme inderogabili degli strumenti urbanistici locali, non potendo l’ordinamento accordare tutela ad una situazione che, attraverso l’inerzia del vicino, determina l’aggiramento dell’interesse pubblico cui sono prevalentemente dirette le disposizioni violate”.
TESI PREVALENTE
La Suprema Corte, con successiva sentenza della Sezione II del 22 febbraio 2010, n. 4240 (), ha invece confermato la usucapibilità scindendo i rapporti pubblicistici da quelli privatistici: “In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali”.
La tesi è stata ribadita dalla Sezione II con le seguenti sentenze:
  • Cass., sez. II, 12 dicembre 2012, n. 22824 (), la quale rigetta la richiesta del P.M. di trasmettere gli atti alle Sezioni unite per la composizione del contrasto tra le decisioni n. 20769/2007 e n. 4240/2010;
  • Cass., sez. II, 18 febbraio 2013, n. 3979 (): “È ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici, anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso “ad usucapionem””;
  • Cass., sez. II, 8 settembre 2014, n. 18888, la quale richiama espressamente non solo le sentenze n. 4240/2010 e 3979/2013, ma anche quelle n. 10289 e n. 871/2012;
  • Cass., sez. II, 19 gennaio 2017, n. 1395 (), che richiama la sentenza n. 3979/2013;
  • Cass., sez. II, 19 marzo 2018, n. 6727, che si riporta ai principi posti dalle sentenze n. 3979/2013 e n. 1395/2017.
RAPPORTI TRA ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI PREGRESSI E SEZIONI UNITE 2019 SULLA NULLITA’ URBANISTICA L’orientamento prevalente che differenzia tra stato patologico (nullità) delle convenzioni costitutive della servitù di mantenere la costruzione (anche se abusiva) a distanza inferiore a quella legale e usucapibilità di tale servitù si fonda sulla scissione tra il piano pubblicistico e quello privatistico, similmente a quanto statuito di recente dalle Sezioni unite 22 marzo 2019, n. 8230 (), intervenute sulla nullità urbanistico-edilizia (affrontate ex professo nel corso del rush finale) che hanno dato continuità alla tesi formale, meno intransigente e più vicina al dato letterale dell’art. 46 T.U. n. 380/2001, smentendo la tesi sostanziale che aveva ipotizzato l’esistenza di una nullità virtuale accanto a quella formale espressamente contemplata dalla norma.

Parte della pagina (ESAME DELLA TRACCIA DI CIVILE ESTRATTA) creata il 4 giugno 2019, ore 22:23

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